Nel mondo reale non ti approcceresti mai a uno sconosciuto esordendo con “Ehi, mi chiamo Tizio e vendo automobili, te ne serve una?”. O meglio: capita che qualcuno ti allunghi un volantino proprio mentre stai per perdere un treno o ti placchi nel mezzo di un centro commerciale, durante una sessione di shopping compulsivo, per illustrarti le ultime novità di quel prodotto che non avevi mai sentito nominare.
Capita, è vero. Ma nessuno oserebbe mai chiamarlo storytelling, malgrado sia una parola ormai sulla bocca di tutti.
Il volantinaggio è una chiara forma di advertising puro, anche piuttosto invadente, che infatti suscita reazioni disparate (o disperate, parlando in termini di marketing): un cenno di dissenso, l’indifferenza totale oppure un finto interesse che si traduce nell’accettare il volantino e gettarlo via quasi subito, senza averlo nemmeno letto né badato alla differenziata.
Sventolare le proprie qualità e i propri prodotti sul web non trasforma tutto questo in storytelling o, più precisamente, in branded storytelling. Cambia il mezzo ma non la modalità.
Ormai “Every company is a media company” è un concetto assodato. Grazie al web siamo tutti potenziali produttori di contenuti ma non necessariamente di “content”.
Se un’azienda parla di se stessa, raccontando magari la propria storia, non sta facendo branded storytelling ma di nuovo advertising.
Storytelling, infatti, non va tradotto letteralmente con “Raccontare storie” (che poi nel gergo italiano vuol dire pure “Raccontare balle”…), perché non si tratta di dire qualcosa ma di dare qualcosa a chi legge.
Nel 2015 e nel 2016 il Cannes Lions, uno dei premi più ambiti da chi si occupa di brand communication, non ha premiato nessuno dei candidati alla categoria Branded Content perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.nessuno perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.
Invece per coinvolgere il pubblico – e fare vero storytelling – un brand deve trasformarsi in una storia che si discosti da se stesso per diventare la storia di altri di cui condivide i valori.
Lo sanno bene i produttori di pneumatici più famosi al mondo, che devono gran parte della loro popolarità proprio a un prodotto editoriale: le guide gastronomiche firmate Michelin.
Pubblicazioni annuali destinate alle persone e create per le persone, dove il prodotto (le gomme) c’entrava solo indirettamente. Il punto era dare ai clienti qualcosa che potesse interessarli davvero. In poche parole: creazione e condivisione di valore (e di valori).
Poi, se la curiosità di provare i ristoranti consigliati nelle guide avesse spinto i lettori a prendere l’auto e partire (consumando i propri pneumatici o testandone magari l’inadeguatezza!), ancora meglio. Ed era probabile che, al momento di cambiare gomme, quelle persone si sarebbero rivolte proprio alla Michelin che, attraverso quel prodotto editoriale utile soprattutto a chi lo leggeva, era entrata in relazione con loro guadagnandosi anche la loro fiducia.
Se le Guide Michelin sono nate nel 1900, quando ancora la rete non ci sommergeva di presunti “contenuti”, l’idea alla base di quella strategia è più che mai attuale. E oggi non c’è storia: le Stories che fanno da padrone sono quelle pubblicate su Instagram. E non mi riferisco solo al video di tuo cugino che, mentre tu cuoci in ufficio senza aria condizionata, ti rende partecipe delle sue ferie. Parlo delle Stories dei Brand. Grandi Brand, che hanno capito di dover fare content anche sui social network, perché è lì che stanno le persone.
Forse stupisce che 1/3 delle Stories più viste provengano proprio dalle aziende (ha stupito un po’ anche me, e invece pare che le persone preferiscano quasi seguire la squadra del cuore piuttosto che l’amico). E forse stupisce ancora di più che 1 Story su 5 riceva almeno un Direct Messanger.
Allora l’Inter ci prova e se la cava abbastanza bene con le grafiche, i test e i video in cui sono proprio i calciatori a dirti quante risposte hai azzeccato.
Lo fa anche il Real Madrid e con contenuti creati ad hoc (non pensavate di caricare sulle Stories video già fatti per altri canali…) in cui gli atleti – facendo il gesto dello swipe app – diventano parte della comunità di quel media parlando la stessa lingua.
Un altro esempio? Foodbites, che nei post mostra creazioni artistiche fatte col cibo e nelle Stories come si arriva a farle, sfidando i follower a provarci.
Oggi Instagram offre ai brand la possibilità di entrare in relazione con il potenziale cliente (tantissimi potenziali clienti…) attraverso contenuti originali pensati ad hoc.
Se forse in termini di ritorno economico il branded content (web o social) si rivela efficace nel medio periodo, comunque una strategia multicanale – fatta bene – può far crescere concretamente il business di un’azienda.
Per questo noi che lavoriamo nel mondo della comunicazione stiamo sempre con le antenne sollevate (l’ultima novità di Instagram in fatto di Stories risale a pochissimo tempo fa…).
Ah lo sapevate che Facebook tiene così tanto alle Stories da aver creato un’area dove vengono inserite le campagne più interessanti della settimana? Guarda e copia? No. Guarda e lasciati ispirare.