Blocchi, fughe, accelerazioni: i segnali che un coaching sta funzionando davvero. Il coaching si regge su tre pilastri: autoconsapevolezza, obiettivi, azione. Senza questi tre, non esiste coaching. Ma chi pensa che un percorso sia lineare, prevedibile o “pulito”, non ha mai davvero assistito a un cambiamento reale.

Anche per il coach ogni percorso è un banco di prova. Un campo vivo in cui monitorare sé stessi, la relazione, l’equilibrio tra empatia e direzione. Il coaching non è una formula: è una danza. E come in ogni danza, ci sono momenti in cui il ritmo si spezza. Sono proprio quelli che attendo con più attenzione.

Lo dico spesso agli allievi: se un percorso fila via troppo liscio, suona un campanello d’allarme. Se non c’è una crisi, o c’è e non la vediamo, qualcosa ci sta sfuggendo. Il cambiamento autentico passa sempre da una tensione. E quando arriva, ha spesso due volti: o la persona si blocca, oppure accelera.

Nel primo caso, il coachee inizia a evitare: evita di scrivere, di mostrare gli obiettivi, magari rimanda, cambia appuntamenti, a volte scompare. Nel secondo, sembra travolto dall’entusiasmo: vuole fare tutto insieme, saltare le fasi, passare subito al compito successivo. In entrambi i casi, sta sfuggendo al punto centrale. Ed è proprio in quel momento, sottile e spesso successivo alla prima reazione emotiva, che accade qualcosa di decisivo.

Dopo il pianto, l’urto, la commozione, arriva la resistenza della mente: la parte che si difende. Qualcosa è stato deciso dentro, ma non è ancora pronto per essere agito. E io, in quei momenti, so che ci troviamo in un passaggio delicato, quello in cui il coachee si sta giocando la possibilità di cambiare davvero.

All’inizio, confesso, pensavo che fosse un bene evitarli. Che fosse ideale accompagnare la persona in un percorso fluido, senza attriti. Che il successo fosse legato alla serenità dell’intero processo. Quanto mi sbagliavo.

Ora, se tutto fila via liscio, sono io la prima a mettere in dubbio la profondità del lavoro. O la persona si sta muovendo in superficie, oppure qualcosa è ancora invisibile.

Cosa faccio in quei momenti? Creo un punto di frizione. Faccio una domanda in più. Apro uno spazio di silenzio. A volte forzo un passaggio. Ma nel frattempo, accolgo. Con fermezza, ma con apertura. Mostro fiducia. Nel processo, ma soprattutto in chi ho davanti. E spesso, qualcosa si muove.

Se il coachee attraversa quel momento, la crisi diventa catarsi. Si riallineano consapevolezza, obiettivi e azione. E da lì, si comincia davvero a costruire. Non solo a desiderare, ma a fare. Non solo a capire, ma a scegliere.

Nell’intero percorso, succede una o due volte. E ogni volta, lo sento anche io: nel corpo, nella voce, nell’energia. Ne esco svuotata. Ma lucida. E pronta a sostenere quel che viene dopo.

A chi si blocca e comincia a cercare alibi, dico: “Storie.”
A chi corre troppo, lo fermo con un sorriso: “Frena la mula.”

Non per interrompere. Ma per riconoscere.
Perché è lì, in quel punto che fa resistenza, che si intravede il margine.
E tutto il resto — se lo lasciamo accadere — può ancora essere scelto.

Articolo di Isabella Bombagi

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