Il porto di Pompei brulica di voci. L’odore acre del pesce in fermentazione si confonde con quello del sale e delle stoffe. Un carrettiere scarica anfore da una barca a fondo piatto, le mani sporche di terra e di mare. Sono tutte uguali: alte, affusolate, ben sigillate con resina e cera. Ma su una di esse si legge qualcosa, inciso con cura: M. Umbricius Scaurus. Più in basso, un’altra scritta: “Gari Optimi Ex Officina Scauri”. Dentro c’è garum, la salsa più famosa del Mediterraneo. E fuori, in quella breve formula latina, c’è già tutto: firma, officina, qualità. È il I secolo dopo Cristo, e Scaurus è uno dei primi imprenditori del gusto. E, senza saperlo, anche uno dei primi marketer.
Un nome inciso nella storia (e sull’argilla)
Di Umbricius Scaurus oggi non resterebbe che un nome tra tanti, se non fosse per due cose: le anfore e il mosaico. Le prime sono state ritrovate ovunque: in Italia, in Gallia, in Spagna. Tutte recano il suo nome, a volte accompagnato da una valutazione commerciale — “optimi”, “secundarium” — come se fossero etichette di una linea di prodotto. Il secondo, invece, è un mosaico pavimentale scoperto nella sua casa di Pompei, probabilmente commissionato dallo stesso Scaurus per celebrare la fortuna della sua impresa.
In quel mosaico compaiono quattro anfore e un’iscrizione che suona come uno slogan pubblicitario:
“G(ari) flos flos” — il fiore del fiore del garum.
Non solo “buono”, ma il migliore tra i migliori. Superlativo tra i superlativi.
È difficile trovare, in tutta l’antichità, un esempio altrettanto limpido di posizionamento di marca.
Il marketing nel segno della reputazione
Scaurus non aveva a disposizione né stampa né radio, ma sapeva che la fiducia si costruisce con la visibilità, la coerenza e la qualità. Il suo nome compariva ovunque: sulle anfore, nei registri commerciali, nei mosaici della sua abitazione. E quel nome diventava garanzia.
Produrre garum non era affare semplice: il processo era lungo, l’odore intenso, e il risultato poteva variare molto. La fermentazione delle viscere di pesce, sotto sale e al sole, era un’arte tanto quanto una chimica. Un garum ben riuscito valeva come un profumo: bastava una goccia per trasformare un piatto povero in una pietanza degna di un banchetto. Per questo chi lo comprava voleva sapere da dove veniva, chi l’aveva fatto, se era “optimum” o meno.
Scaurus offriva tutto questo. Il suo marchio inciso era una promessa. La formula latina sulla ceramica non serviva solo a informare: serviva a distinguere. E ogni dettaglio della produzione — dall’aspetto delle anfore alla qualità del sigillo — contribuiva a costruire un’identità coerente.
Il mosaico come manifesto
Nel vestibolo della sua domus, chi entrava trovava raffigurate quattro anfore disposte in simmetria. Non erano immagini decorative. Erano un’affermazione identitaria. Un messaggio rivolto agli ospiti, ma anche — forse — ai clienti, ai collaboratori, alla città intera: “Questa casa si regge sul garum. E questo garum è mio.”
L’immagine che oggi chiameremmo “visual branding” era già lì, incastonata nel pavimento. Non per vendere. Ma per raccontare. Per imprimere nel marmo — oltre che nel mercato — la forza di una reputazione costruita nel tempo.
Come nota il Marketing Museum, “Roman producers used inscriptions and mosaics to create trust and differentiate quality long before trademarks existed.”
Non è un dettaglio da poco. È la prova che la marca nasce quando c’è qualcuno disposto a dichiararsi autorevole davanti al mondo. Non servono slogan, se il nome dice già tutto.
Un’etica del prodotto
In un’epoca dove spesso associamo il marketing alla manipolazione, la storia di Scaurus ci restituisce un’idea più antica — e forse più nobile — della promozione. Non si trattava di inventare qualcosa che non c’era. Si trattava di dire al mondo che ciò che avevi fatto meritava fiducia.
Il marketing, in questo senso, era un’estensione del lavoro. Un modo per dare voce a ciò che le mani avevano già creato.
Riflessioni contemporanee
Cosa avrebbe fatto Scaurus se fosse nato oggi? Probabilmente avrebbe registrato un marchio, costruito una narrazione territoriale attorno alla baia di Napoli, e aperto un canale YouTube dove spiegava le differenze tra liquamen e garum. Ma l’essenza non sarebbe cambiata: avrebbe continuato a firmare ciò che produceva, a dare valore al dettaglio, a comunicare qualità attraverso coerenza e riconoscibilità.
E probabilmente avrebbe ancora inciso sulle sue bottiglie una frase semplice, forte e definitiva:
“Optimum.”
Nel prossimo episodio…
Ci sposteremo nella Grecia classica, dove incontreremo Exekias, ceramista e artista, che non solo decorava vasi ma li firmava. E lo faceva con orgoglio, con formula diretta: “Exekias me egraphsen” — Exekias mi ha dipinto.
Un altro passo nella storia di come l’identità personale è diventata marca.
Articolo di Dreamers Agency