Cosa succede davvero dietro i post “dammi un like e ti invio tutto in DM”? In questo articolo racconto uno dei meccanismi più usati (e abusati) su LinkedIn: il Permission Marketing Funnel. Una strategia apparentemente gentile, ma che spesso nasconde obiettivi molto meno trasparenti.
Quando il permission marketing diventa una trappola di rete
Ne abbiamo già parlato più volte, ma ogni giorno LinkedIn ci dà nuovi esempi da analizzare. Il social “professionale” per eccellenza è ormai terreno fertile per il permission marketing, la strategia teorizzata da Seth Godin nel 1999, in cui si chiede il permesso all’utente prima di proporgli qualcosa. In un’epoca di spam, banner e interruzioni continue, sembrava la svolta gentile, educata e rispettosa.
Eppure oggi, come spesso accade alle buone idee, anche questa è stata piegata a logiche più immediate e opportunistiche. La sua versione attuale su LinkedIn ha poco a che fare con il rispetto del tempo degli altri, e molto più con la costruzione forzata di visibilità attraverso un funnel sociale che sfrutta l’algoritmo della piattaforma.
“Commenta e ti mando tutto”: lo schema permission è servito
Lo vediamo ogni giorno. Post che parlano di casi studio di successo, segreti incredibili per ottenere migliaia di lead o fatturati a sei zeri… e poi la frase magica: “Commenta con X e ti mando tutto in DM”. Non è solo una richiesta innocente. È la chiave per innescare una propagazione virale.
Ogni commento è una spinta in più per il post, che inizia a comparire anche nella bacheca dei contatti del commentatore. E più aumenta l’interazione, più si allarga la rete. Il risultato? Una propagazione esponenziale all’interno della seconda rete di contatti, esattamente quella che normalmente non si riesce a raggiungere.
Il colpo di scena arriva dopo: “Ciao, non siamo in contatto. Chiedimi la connessione così ti mando tutto”. Un funnel perfetto, dove il lead arriva da solo, chiede lui la connessione, ed è pronto ad ascoltare. In apparenza tutto regolare. Nella sostanza, molto più vicino a un trucco algoritmico.
Un gioco che funziona perché l’esca è interessante
L’ho visto succedere più volte, e ho studiato i profili di chi lo fa sistematicamente. La dinamica è affascinante perché, in fondo, funziona. Se l’hook è forte, se il contenuto promesso è davvero utile (o almeno lo sembra), le persone commentano. Anche profili senior, influencer, consulenti: nessuno è immune alla curiosità e alla voglia di ricevere “quel contenuto esclusivo”.
In fondo, è la psicologia della reciprocità e del FOMO (fear of missing out) che muove l’azione. Ci convinciamo che basti un commento per ottenere un vantaggio. E spesso siamo felici di pagare quel prezzo.
Quindi, è giusto o sbagliato usare questa tecnica?
Non c’è una risposta semplice. Dipende tutto dall’intento. Se il contenuto è reale, utile e viene effettivamente inviato, il gioco può essere visto come un’ottimizzazione del sistema. Ma se si tratta solo di una scusa per raccogliere connessioni e costruire una rete gonfiata, allora rischia di trasformarsi nell’ennesimo stratagemma che danneggia la credibilità del social.
LinkedIn è, o dovrebbe essere, il luogo delle connessioni autentiche. Se lo trasformiamo in una macchina per “arraffare” contatti con tecniche borderline, alla lunga ne perderemo tutti in qualità, fiducia e attenzione.
Io, per ora, resto a osservare il fenomeno. E mi chiedo ogni volta: quante persone stanno commentando per ricevere davvero il contenuto, e quante solo per non sentirsi tagliate fuori?
Articolo di Alessandro Chiavacci