La nostra realtà è unica. Questa è una delle frasi che sento pronunciare più spesso.
Anzi, in qualsiasi contesto io vada, la sento dire almeno una volta nelle prime fasi di relazione con un gruppo.
Che si tratti di un’azienda o di una società sportiva.
Mi è capitato in piccoli studi professionali, in grandi aziende di servizi, in realtà produttive e fra alti ufficiali di corpi militari.
L’ho sentita dire da dirigenti di società sportive così come da atleti.
“Perché sai, non so se hai mai avuto modo di lavorare in una realtà unica come la nostra.
Quello che accade qui è molto diverso da quello che può succedere in altre realtà simili.”
Le prime volte mi colpiva, lo ammetto. Pensavo potesse essere davvero così. Unica.
E mi preoccupavo di non avere gli strumenti adatti per poter affiancare quella specifica realtà nel modo più giusto.
Avevo timore che la mia esperienza potesse non bastare.
Poi ho imparato qualcosa di importante.
Quella frase ritorna ovunque. In ogni contesto.
E più che un’informazione oggettiva, è una dichiarazione identitaria. Unica.
È come se mi si dicesse: “Abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti per quello che siamo. Di non essere trattati come una copia di qualcos’altro.”
Oggi quella frase la accolgo. La ascolto in modo diverso.
Perché so che ogni persona, ogni organizzazione, ogni gruppo è effettivamente unico.
È unico per storia, per dinamiche interne, per relazioni, per valori, per abitudini e per ciò che crede possibile.
Ma so anche che esistono dei fondamenti comuni.
Che molte delle difficoltà che si incontrano nei team, nei rapporti interni, nei passaggi di crescita, si assomigliano.
Che certi blocchi, certe resistenze, certe accelerazioni esistono ovunque, anche se assumono forme diverse.
E soprattutto, so che le leve per il cambiamento, quelle che funzionano davvero, partono dalle persone.
Dalla loro consapevolezza, dalla chiarezza sugli obiettivi, dalla responsabilità di agire in modo coerente.
Che si tratti di una multinazionale, di una scuola calcio o di un laboratorio artigiano.
Per poter davvero liberare il potenziale di una persona o di una squadra, però, non basta “intervenire” dall’esterno.
Bisogna costruire un processo su misura, che parta proprio da quella unicità.
Serve osservare, ascoltare, capire dove sono i punti di forza e dove, invece, si nascondono le criticità.
Occorre aiutare le persone a definire obiettivi, smantellare abitudini o atteggiamenti che ostacolano, e favorire tutto ciò che dà vigore, vitalità, direzione.
Ma sempre con metodo.
E questa è la parte più difficile.
Perché anche se siamo abituati a sapere che per far funzionare un’azienda serve un metodo,
che per risparmiare, per investire, per raggiungere risultati economici serve una strategia,
quando si parla di relazioni, di soft skills, di intelligenza emotiva, di leadership, tutto questo si perde.
È come se, improvvisamente, valesse l’idea che basti il buon senso. Oppure, peggio ancora, l’istinto.
Ma non funziona così.




Le persone sono un sistema complesso, e come tutti i sistemi complessi, hanno bisogno di uno sguardo competente e di una presenza consapevole.
E no, non esiste un manuale d’istruzioni valido per tutti.
Ecco perché serve il giusto equilibrio: metodo, esperienza e la capacità di adattarsi a ciò che si ha davvero davanti, ogni volta.
È normale fare fatica ad affrontare con metodo qualcosa che non si conosce,
soprattutto quando si ha la sensazione che non esista un punto da cui cominciare davvero.
È normale rimandare, cercare scorciatoie, sperare che le cose si sistemino da sole.
Ma proprio per questo, in certi momenti, è utile farsi affiancare.
Non perché qualcun altro faccia il lavoro al posto nostro,
ma perché ci aiuti a vedere ciò che da soli facciamo fatica a mettere a fuoco,
e ci accompagni passo passo finché non diventiamo noi stessi capaci di riconoscere, agire, decidere.
Con metodo, con lucidità e con la competenza che nasce dall’esperienza vissuta, non dalla teoria.
Articolo di Isabella Bombagi