La vera trasformazione non si vede. Ma si sente

Quando la persona inizia un percorso di coaching non sa cosa succederà. Nemmeno io lo so.

Anche se ha già fatto esperienze simili, sarà diverso. Perché ogni volta, ogni persona, ogni momento, ha un suo modo di aprirsi.

Che sia un percorso individuale o di gruppo, ci sono segnali precisi che mi aiutano a capire se siamo sulla strada giusta. E uno dei più forti è l’andamento emotivo.

Nei percorsi individuali, il momento che attendo è sempre lo stesso: quello in cui si arriva al nocciolo, e cadono le difese.

La domanda giusta, quella che toglie ogni possibilità di fuga, e a cui segue una reazione che dice tutto: da qui in poi, nulla sarà più come prima.

Evviva.

È lì che comincia il lavoro vero. Ed è lì che vedo la presa di coscienza.

È lì che capisco se quello che ha dichiarato come obiettivo è davvero ciò che conta. Ed è lì che c’è fiducia, responsabilità, concretezza.

Di solito questo momento si manifesta con un pianto.

Un pianto che arriva all’improvviso.

Che sorprende chi lo vive.

Che lascia la persona confusa, scoperta, nuda.

E quasi sempre, dopo quel pianto, arrivano le scuse.

E io, invece, sorrido. Di cuore. Li ringrazio.

Perché so che da lì comincia la trasformazione.

Yes we can.

Ecco cosa penso, ogni volta.


Tuttavia, non sempre questo momento si presenta come un pianto.

A volte prende forma nella resistenza.

Oppure nell’aggressività.

Oppure in una sfida lanciata al coach.

Questa parte è ancora più stimolante, per me.

Perché la sfida è mantenere l’equilibrio: essere ferma, ma accogliente. Assertiva, ma empatica.

In gruppo, tutto questo si amplifica.

I sentimenti guidano ogni dinamica.

Non c’è bisogno di nominarli: agiscono.

Se vogliamo una prestazione ottimale – in azienda o nello sport – dobbiamo prima fare pulizia.

Via ciò che ostacola.

Poi, solo dopo, potenziamo ciò che c’è: il superpotere del singolo e del gruppo.


La sfida, però, resta sempre la stessa: stare al proprio posto.

Non manipolare, neanche in modo positivo.

Non dare consigli, anche se sappiamo cosa servirebbe.

Ricordarsi che la persona che abbiamo davanti non è noi. Non ha la nostra storia.

Ecco perché chi applica la PNL come fondamento non è un coach, ma un tecnico della PNL.

E no, non è vero che Richard Bandler ha tutte le risposte.

E anche se le avesse, non ci servirebbero.

Quelle risposte devono arrivare da chi abbiamo davanti.

Perché dentro di noi c’è già tutto ciò che serve.

Le uniche cose che, davvero, contano.


Ed è per questo che quel pianto, ogni volta che lo vedo arrivare, mi fa dire:

adesso possiamo cominciare davvero.

Ora possiamo liberare il potenziale. Ora possiamo creare valore.

Articolo di Isabella Bombagi

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