C’è stato un momento, qualche mese fa, in cui mi sono trovato davanti a una tavola di concept visivi per un cliente.
Erano suggestioni per una campagna che doveva uscire in tempi brevi, e l’agenzia aveva chiesto il nostro supporto per sviluppare un linguaggio visivo forte, coerente e riconoscibile.
Accanto alle mie immagini, c’erano anche alcuni sfondi generati con intelligenza artificiale. Li avevamo prodotti internamente, come parte del nostro Hybrid Workflow.

Ecco: a colpo d’occhio, erano tutte immagini bellissime. Ma solo alcune avevano senso. Solo alcune parlavano davvero il linguaggio del brand.
Quel momento, apparentemente tecnico, mi ha ricordato una cosa che so da sempre: non è l’immagine in sé a fare la differenza. È il pensiero che c’è dietro.
E oggi, con la potenza generativa dell’AI a disposizione, questa consapevolezza diventa ancora più urgente.
Perché non basta l’AI. Serve la regia.

La potenza (e il limite) della generazione

L’intelligenza artificiale genera immagini a una velocità e con una varietà impressionanti.
Atmosfere cinematografiche, contesti architettonici, dettagli scenografici: tutto è raggiungibile in pochi minuti.
Ma il punto è che l’AI non sa nulla di quello che sta generando. Non conosce il brand, non conosce il target, non conosce l’intenzione.

Se la usiamo senza una visione, ci restituisce immagini belle ma vuote.
Una superficie perfetta, ma senza profondità.
È un po’ come sfogliare una rivista di stock: tutto piacevole, tutto lucido, tutto intercambiabile.
Ma se c’è una cosa che un brand non può permettersi, è essere intercambiabile.

Una questione di linguaggio

Quando lavoriamo con i clienti, non ci limitiamo a fornire immagini.
Il nostro lavoro è più simile a quello di un direttore d’orchestra: dobbiamo armonizzare estetica, tono, materiali, storytelling.
È un lavoro che comincia prima del primo clic, prima della prima immagine.

Serve un’analisi profonda del brand, dei suoi competitor, dei suoi valori.
Serve costruire un vocabolario visivo fatto di luci, texture, colori, composizioni.
Serve ascoltare.
E serve scegliere.

Solo dopo — solo a quel punto — ha senso parlare di AI. Perché a quel punto l’AI diventa uno strumento, non un generatore casuale.
Uno strumento potente, sì, ma guidato da una mano, da una visione, da una cultura dell’immagine.

Cultura visiva e responsabilità

In un’epoca in cui tutto è contenuto, in cui i feed sono saturi di immagini, la cultura visiva è la vera differenza.
Chi lavora con l’immagine oggi ha una responsabilità enorme: quella di scegliere cosa mostrare e cosa no.
Di dare forma visiva a valori e identità. Di proteggere il racconto, anche quando la tecnologia permette di far tutto e subito.

Io credo che oggi servano meno effetti speciali e più capacità di leggere il contesto.
Meno generazione compulsiva e più direzione consapevole.
Perché l’AI non può sostituire la regia.
Non può sostituire la visione.
Non può sostituire la cura.

Conclusione: la tecnologia da sola non basta

Quando vedo una buona immagine, non mi colpisce solo per la sua bellezza.
Mi colpisce perché parla con coerenza, con profondità, con stile.
Perché riesce a raccontare un prodotto, un’atmosfera, una marca… senza mai perdere il suo tono.
E per fare questo, serve un pensiero prima della tecnica. Una regia prima dell’effetto.

L’intelligenza artificiale è e sarà una parte fondamentale del nostro lavoro.
Ma senza direzione, senza cultura visiva, senza ascolto, rischia di diventare solo un’altra scorciatoia.
E noi non lavoriamo per fare scorciatoie.
Lavoriamo per creare immagini che parlino.
E per farle parlare… serve qualcuno che sappia davvero cosa vogliono dire.

Articolo di Giorgio Cravero

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