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Non è vero che se sei bravo ad ascoltare sei portato per fare il coach.

“Dovresti fare il coach, sai? Hai proprio la stoffa per questo. Sei uno che ascolta.”

Oppure:

“Mi hanno sempre detto che ho una grande empatia. Forse è ora che mi metta a fare coaching.”

Frasi che ho sentito un’infinità di volte.

Spesso da uomini convinti che il loro ascolto attento e il saper dare buoni consigli siano la porta d’ingresso naturale al coaching.

E, altrettanto spesso, da donne alle quali viene riconosciuta una spiccata empatia come se fosse la dote principale, quasi scontata, per approcciarsi a questa professione.

Non fraintendiamoci.

Ascolto ed empatia sono qualità preziose.

Non solo nel coaching, ma in ogni attività relazionale, in ogni contesto umano.

Il punto è che, da sole, non bastano. E, se mal gestite, possono persino diventare un ostacolo.

L’ascolto è utile quando si trasforma in osservazione ampia, lucida, strategica.

Non basta accogliere parole e stati d’animo. Bisogna saper leggere tra le righe, cogliere ciò che non viene detto, notare dettagli, contraddizioni, paure mascherate.

E poi raccogliere tutte queste informazioni per costruire, con metodo, un percorso efficace per quella persona.

L’empatia è importante, certo.

Ma attenzione a non confonderla con la simpatia, con la vicinanza emotiva “spontanea”.

Il coach non è un amico, non si lascia trascinare dentro la storia del coachee.

È presente, partecipe, ma mantiene uno sguardo dall’alto.

Non per superiorità, ma per lucidità.

Perché se ci facciamo risucchiare, perdiamo ciò che è più importante: il potere di accompagnare davvero l’altro nel cambiamento.

E poi c’è un altro aspetto che spesso viene frainteso.

Il coach non consiglia, non orienta, non decide al posto del coachee.

Il coach porta strumenti, possibilità, punti di vista nuovi.

Crea le condizioni per cui la persona possa vedere le cose in modo diverso e costruire strategie, atteggiamenti, competenze nuove.

Il coach lavora sulla libertà e sull’autonomia dell’altro, non sulla sua dipendenza.

Una delle cose più belle che mi è capitato di sentire è quando una persona capisce che il coaching non fa per lei o per lui.

Mi è successo due volte, con un uomo e con una donna.

Lui, perché “gli piace troppo dare consigli”.

Lei, perché ciò che ama non sta nei confini del coaching, ma si avvicina di più a discipline di accoglienza che potremmo definire “olistiche” o “spirituali”.

Mi piace, perché significa che hanno compreso bene cosa è (e cosa non è) il coaching.

Erano due miei allievi, che stavano seguendo un percorso per diventare coach professionisti.

Bisogna anche ricordare che il coach non è uno psicologo e non può permettersi di aprire varchi che poi non sa o non può chiudere, o peggio, lasciare la persona da sola a gestire ciò che succederà, una volta che il percorso sarà finito.

Perché un percorso di coaching ha una durata prestabilita e uno dei suoi cardini è proprio l’ottenimento di indipendenza da parte del coachee.

Io stessa, nel mio primo percorso da coach, ho imparato questa lezione.

Mi sono accorta di aver sbagliato posizione.

Involontariamente, ho causato il blocco dell’azione della persona, che iniziava a provare ansia da prestazione e attendeva me per sentirsi sicura di agire.

Per fortuna non è successo nulla di grave, ma per me è stata una grande lezione.

Per questo, quando sento dire che “basta saper ascoltare” o che “con un po’ di empatia si può iniziare”, mi viene da sorridere.

Perché so quanta serietà, quanta preparazione, quanto allenamento servono per stare davvero nel ruolo.

E anche perché, a dirla tutta, saper ascoltare e avere empatia, se ben usati, non sono un punto d’arrivo.

Sono solo l’inizio.

Articolo di Isabella Bombagi

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