Immaginate Atene, un giorno di fine estate, attorno al 530 a.C. Il quartiere del Ceramico pullula di botteghe. Gli apprendisti macinano l’argilla, i maestri controllano la temperatura dei forni. Nell’aria si mescolano il fumo, il colore nero del bucchero e il riverbero delle decorazioni rosse che cominciano a prendere piede. In una di queste botteghe, un uomo si china su un vaso. Non sta solo dipingendo: sta firmando. “Exekias me egraphsen”. Exekias mi ha dipinto. È una dichiarazione di autorialità, ma anche di valore. Una presa di posizione. Un gesto che, in un tempo che non conosceva ancora la parola marketing, ne anticipa perfettamente il senso profondo.
La firma come segno di riconoscimento
Nella Grecia arcaica, firmare un vaso non era la norma. Anzi, era un’eccezione. I ceramisti e i pittori, per secoli, hanno lavorato in anonimato, o al massimo riconosciuti da critici moderni attraverso stili e tratti ricorrenti. Exekias, invece, non solo firma le sue opere, ma spesso lo fa in modo duplice:
“Exekias epoiesen” – Exekias mi ha fatto
“Exekias egraphsen” – Exekias mi ha dipinto
Il suo è un doppio atto di proprietà: dell’oggetto e della sua immagine. È artigiano e artista, tecnico e narratore, produttore e comunicatore. La sua firma diventa marchio di garanzia, segno identitario, atto estetico. E viene apposta su vasi che spesso narrano storie potenti: Achille e Aiace che giocano a dadi, il suicidio di Aiace, scene mitologiche dense di pathos e simbologia.
Perché firmare?
Firmare, nel contesto dell’Atene del VI secolo a.C., significava dichiarare valore. Non solo tecnico, ma umano, personale, inimitabile. La firma non serviva semplicemente a farsi riconoscere, ma a creare un’aura attorno all’oggetto. Quel vaso, con quella scena, fatto da quella mano, diventava unico.
La firma, cioè, creava differenza, che è esattamente ciò che ogni marca cerca ancora oggi: distinguersi, essere riconosciuta, attribuire significato.
Non era solo un gesto orgoglioso. Era un investimento nella propria reputazione. Un seme piantato nella memoria collettiva, affinché altri, vedendolo, dicessero: “Questo è un vaso di Exekias”.
Exekias e la comunicazione visiva
Non basta dire che Exekias firmava. Bisogna aggiungere che sapeva raccontare. Le sue opere sono dense di significati simbolici, di dettagli iconografici, di soluzioni compositive ardite. Non mirava solo alla bellezza: mirava alla memoria.
Una delle sue opere più celebri, il vaso con Achille e Aiace che giocano a dadi, non è una semplice illustrazione. È un capolavoro di tensione narrativa. I due eroi sono seduti, concentrati, i nomi scritti accanto. Un attimo di tregua in mezzo alla guerra. Silenzio e presagio.
Chi acquistava quel vaso — magari per offrirlo, per esporlo, per usarlo durante un simposio — acquistava una storia, un’immagine, un messaggio. E insieme, un nome: Exekias.




Un precursore del branding personale
Exekias non solo firmava. Firmava sempre nello stesso modo, nello stesso punto, con la stessa calligrafia. Costruiva un codice. E questo codice permetteva alla sua reputazione di circolare. I suoi vasi, ritrovati in Italia, in Francia, nel nord Africa, testimoniano che il suo nome viaggiava insieme al prodotto. Esattamente ciò che fa un brand oggi.
Non sappiamo se Exekias vivesse di più grazie al suo talento tecnico o alla sua capacità di posizionarsi nel mercato dell’arte greca. Ma sappiamo che, grazie alla sua firma, ha attraversato i secoli. E che quella firma ha funzionato più di qualunque campagna pubblicitaria.
Il marchio come promessa
Exekias ha trasformato un gesto semplice — scrivere il proprio nome — in una leva di riconoscimento. Non ha costruito uno slogan, né un logo. Ma ha inventato qualcosa di ancora più potente: una relazione tra autore, oggetto e destinatario.
Quando oggi parliamo di brand identity, consistenza visiva, narrazione autoriale, stiamo evocando gli stessi meccanismi che questo artista-artigiano ha messo in campo nel VI secolo avanti Cristo.
Exekias non aveva clienti. Aveva committenti, spettatori, appassionati. Ma li trattava come li trattiamo oggi: con rispetto, con strategia, con il desiderio che si ricordassero di lui.
Un’eredità ancora viva
La firma di Exekias non è rimasta un caso isolato. Dopo di lui, sempre più ceramisti iniziarono a firmare. La firma divenne uno strumento di differenziazione. Una forma di valore aggiunto. E aprì la strada a ciò che oggi riconosciamo come marchio d’autore, firme di stilisti, monogrammi di designer.
La storia di Exekias è la storia di un gesto semplice che, ripetuto con coerenza, ha trasformato un mestiere in un’identità. Ed è proprio lì, tra le mani di un ceramista greco, che il marketing — ancora senza nome — inizia a prendere forma.
Fonti
Oxford / Beazley Archive: esempi di “Exekias epoiesen/egraphsen”
Cambridge UP: approfondimenti artistici sulle iscrizioni
Prossimo episodio…
Ci sposteremo di nuovo nel tempo, ma in avanti: nel Medioevo. Parleremo di insegne. Di come, in un’epoca in cui la maggior parte della popolazione non sapeva leggere, le botteghe usassero simboli e immagini per farsi riconoscere.
Perché anche senza parole, la marca sa come farsi notare.
Articolo di Alessandro Villa