La scorsa settimana, durante una delle tante ore passate su LinkedIn — per scrivere, leggere, cercare spunti utili ai nostri clienti e al nostro lavoro in agenzia — mi sono imbattuto in un video pubblicato su LinkedIn Guide to Creating. Il tema? Come utilizzare le analitiche per migliorare i propri video.
Tutto ok, all’apparenza. Anche se già un po’ surreale: nessuna indicazione sulla speaker, tono da tutorial per principianti, e quel retrogusto zuccheroso da “YouTube per manager”. Ma andiamo oltre.
Scorrendo l’articolo collegato, mi sono imbattuto in qualcosa che davvero mi ha fatto sgranare gli occhi: un contenuto che spiega, punto per punto, come diventare LinkedIn Creator. Tra i video proposti c’è anche quello di Morgan Young — classe 2002, Top Voice, Learning Instructor, 80mila follower, campanellina inclusa, come da tradizione.
E qui mi fermo. Perché cara LinkedIn, ma cosa stai combinando?
Prima modificate l’algoritmo per bloccare il comment baiting, ora promuovete il creator baiting?
Avevamo appena apprezzato la stretta contro il comment baiting: basta con “scrivi bomba nei commenti”, “clicca qui”, “seguimi per”. Un piccolo segno di rispetto verso l’intelligenza dei vostri utenti. E ora? Ora lanciate corsi espliciti per insegnare come diventare creator su LinkedIn?
Sì, certo. La creatività va bene. Ma dov’è finita la logica della connessione? Il principio stesso su cui avete costruito il vostro nome — to be linked in — ora sembra rimpiazzato da un più mondano to be famous on(line).
Vogliamo davvero trasformare LinkedIn in un social broadcasting, per HR e aziende dal piglio TikTok?
“Share to LinkedIn directly from CapCut.”
“Nano tips for creating short form video that engages.”
Davvero? Siamo al YouTube professional?
A TikTok in giacca e cravatta?




Creator o influencer aziendali?
Ma davvero Morgan Young o Roshanda Pratt o AJ Eckstein possono insegnare qualcosa a chi lavora con le relazioni? Mi devono spiegare quando postare? Quale tappeto musicale usare? Che i contenuti aziendali vanno evitati per parlare invece di “viaggi e sfide personali”?
Mi devono spiegare che postare il video direttamente in piattaforma dà un boost alla reach? A chi?
Un boost di visibilità per chi ha 2.543 connessioni e 100mila follower?
Un profilo così, è un pigro che non risponde ai commenti o un fuffa guru che parla a caso con gente che nemmeno conosce?
L’ennesimo social nel mainstream?
State cercando di trasformare anche LinkedIn nell’ennesimo social di massa? Un altro tentativo di rincorrere il video dopo che Instagram, TikTok e YouTube vi hanno già fatto a pezzi da anni?
Davvero vogliamo spingere anche qui verso video brevi, tag accattivanti, orari da studiare a tavolino, ragebaiting, engagement farming?
La domanda è semplice: LinkedIn serve per fare rete o per fare views?
Perché c’è una bella differenza.
Speranze (poche) e rimpianti (molti)
Il meccanismo della connessione – quella vera – sta cedendo sotto il peso del buzz a tutti i costi.
Eppure LinkedIn era (e spero rimanga) diverso. Era un luogo di relazione tra persone che si scelgono. Dove non serve un algoritmo da rincorrere ma uno scambio autentico.
Se invece si decide che anche LinkedIn deve diventare mainstream, con contenuti “engaging” ma vuoti, con tecniche da creator da corsia centrale, allora possiamo pure aspettarci l’abbandono da parte degli utenti più consapevoli. Perché, come già accaduto altrove, quando il rumore supera il valore, la gente se ne va.
Ma magari no.
Magari ci salveranno proprio le connessioni. Quelle vere. Quelle che non hanno bisogno del filtro CapCut.
Articolo di di Alessandro Chiavacci