Il manifesto che fece ballare Parigi

Chéret, Cappiello e la nascita della pubblicità illustrata

Parigi, boulevard des Capucines. È il 1905. Un tram sferraglia nel traffico, mentre i passanti affollano i marciapiedi. C’è odore di castagne e inchiostro, il cielo è grigio, ma qualcosa — qualcosa di luminoso — attira l’attenzione. Un nuovo manifesto è comparso durante la notte, incollato sul muro accanto al teatro. Raffigura una donna dai capelli rossi, in abito sgargiante, che danza tenendo in mano una bottiglia. Sorride, leggera come una piuma. Sopra, in lettere morbide, il nome di un liquore. Nessuno lo legge. Ma tutti lo vedono. E tutti, ora, lo ricordano. Perché quel manifesto non è un annuncio. È un’apparizione. È la pubblicità che entra nella città come una festa. È l’arte che si mette al servizio del desiderio.


Chéret, il padre del manifesto moderno

Jules Chéret è considerato da molti il padre della pubblicità illustrata. Nato nel 1836, si formò come litografo e artista. Ma più che nei salotti, trovò il suo spazio per strada.

Le sue prime opere per i teatri parigini, le acque minerali, le profumerie e i cabaret erano più simili a quadri che a manifesti. Usava colori vivaci, figure danzanti, composizioni ariose.
Non voleva convincere con argomenti. Voleva incantare con la leggerezza.

Scrive lo storico Stephen Eskilson:

“Chéret inventò un modo di comunicare che fosse al tempo stesso funzionale ed estetico, legato alla città, pensato per essere notato e ricordato.”
(Graphic Design: A New History, 2007)

Nelle sue immagini c’è il ritmo della Belle Époque, la vitalità delle donne emancipate, la gioia di vivere. E proprio queste immagini diventarono presto icone riconoscibili di marca, ben più potenti di qualsiasi slogan.


Leonetto Cappiello, il genio italiano a Parigi

Ma se Chéret fu il primo, Leonetto Cappiello fu colui che portò la pubblicità illustrata nella modernità.

Nato a Livorno nel 1875, si trasferì a Parigi da giovanissimo. Iniziò come caricaturista, ma presto fu ingaggiato per creare manifesti pubblicitari. E lì cambiò tutto.

Cappiello capì che l’immagine doveva gridare senza suono, colpire in mezzo al caos urbano, restare impressa con una sola occhiata.

La sua firma? Una figura centrale, spesso grottesca o surreale, su sfondo scuro.
Una donna vestita da foglia per reclamizzare un digestivo. Un diavolo verde per un liquore. Un elefante che fuma per promuovere sigari.

Era tutto paradossale, teatrale, impossibile da ignorare.

“L’affiche doit sauter aux yeux comme un coup de poing.”
(“Il manifesto deve saltare agli occhi come un pugno.”)
— Leonetto Cappiello

Non è solo un gioco grafico. È una tecnica mnemonica: il colore, il contrasto, la stranezza aiutano a fissare l’associazione tra immagine e marca nella mente dello spettatore.

Cappiello aveva anticipato quello che oggi chiameremmo branding visivo. Non voleva solo vendere. Voleva incidere nella memoria.


Un paesaggio urbano trasformato

Grazie a questi pionieri, la pubblicità esce dalle pagine e invade i muri.
I manifesti diventano parte del paesaggio urbano. Non più solo decorazione, ma presenza culturale.

Chi passeggia per Parigi nei primi anni del Novecento vede la città mutare: ogni muro racconta una marca, ogni angolo diventa teatro.
La gente inizia ad aspettare i nuovi manifesti, a collezionarli, a parlarne.

Chéret e Cappiello trasformano l’atto di guardare in un rito collettivo.
E ogni sguardo è un piccolo investimento d’attenzione che rende, nel tempo, familiarità, riconoscimento, affetto.

L’inizio dell’immaginario pubblicitario

Con loro nasce un’idea semplice e potente: non basta mostrare un prodotto, bisogna evocare un mondo.

Il marketing illustrato non lavora più solo sul bisogno, ma sulla proiezione, sull’associazione emotiva.
Non si compra solo un vino, ma l’euforia di una serata. Non un profumo, ma la promessa della seduzione.

Questa eredità è visibile ancora oggi.
Ogni volta che un marchio costruisce una campagna visiva iconica.
Ogni volta che un brand investe su immagine prima che su parole.
Ogni volta che un’immagine ci resta in testa anche se non sappiamo spiegare perché.

È la lezione di Cappiello e Chéret.
Che il desiderio può anche danzare.


Fonti

  • Stephen Eskilson, Graphic Design: A New History, Yale University Press, 2007
    Alain Weill, The Poster: A Worldwide Survey and History, G. K. Hall, 1985
    Bibliothèque nationale de France – Dossier “Jules Chéret et l’art de l’affiche”
  • Victoria and Albert Museum – https://www.vam.ac.uk/articles/jules-cheret-the-poster-king
  • MoMA, “Advertising and Modernism”
  • Musée de l’Imprimerie, Lyon – Archivio manifesti Cappiello
  • https://leonettocappiello.com

Nel prossimo episodio…

Ci sposteremo a Londra, nel cuore degli anni ’30, dove un giovane pubblicitario chiamato David Ogilvy inizia a scrivere annunci che sembrano racconti, frasi che sembrano promesse, titoli che sembrano sentenze.
Il suo stile cambierà il modo di parlare delle aziende. E il suo motto? “Il consumatore non è un idiota, è tua moglie.”

Articolo di Dreamers Agency

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