Questo articolo viene da lontano. Tutto è iniziato con un post su LinkedIn che parlava dell’intelligenza artificiale e di come cambierà completamente il nostro modo di lavorare e relazionarci. Tra i commenti, uno in particolare ha attirato la mia attenzione: “Pensate che in USA l’Associazione degli Psicologi sta chiedendo al governo di vietare l’utilizzo di ChatGPT come alternativa a loro”.
Quella frase mi è rimasta impressa. L’ho archiviata da qualche parte nel cervello e lì è rimasta, latente, fino a qualche giorno dopo, quando, in una telefonata con Chiara Argento Zorat, quella frase si è riaccesa. Non stavamo ancora parlando di lavoro, ma delle nostre vite, delle nostre cicatrici. Di quelle ferite che, invece di nasconderle, ci portiamo addosso come insegne di battaglia.
Chiara mi ha raccontato della sua decisione di uscire dall’Ordine degli Psicologi per tutta una serie di “attriti” di varia natura.. Ma ciò che mi ha colpito davvero è stata una frase: “La psicologia è una scienza umanistica, non scientifica. Essere psicologi non vuol dire seguire un protocollo, ma capire il paziente”.
L’intelligenza artificiale non può curare l’anima
Ci ho messo qualche giorno per collegare le due cose. Poi ho iniziato a studiarci sopra. La psicologia, come spiega bene Gemini, non è una scienza esatta. Si basa sul metodo scientifico, certo, ma si occupa di fenomeni così individuali e complessi che raramente è possibile generalizzare.
Il cuore della questione è proprio qui: il fattore umano è imprescindibile. Non si cura l’anima con un algoritmo. Serve tempo, serve ascolto, serve relazione.
Quando poi sono andato a vedere cosa dice ChatGPT stesso sulla questione, la risposta è stata chiara: l’AI può essere “terapeutica” solo perché simula empatia, ma non è un terapeuta. È lo stesso chatbot a consigliare, nei suoi output, di rivolgersi a un professionista umano.
Ecco perché forse oggi, nel mezzo di questo innamoramento collettivo per l’AI, dovremmo ricominciare a parlare di umanità.
L’errore degli USA e la lezione del 2001
Mi è tornato in mente un articolo letto anni fa, subito dopo l’11 settembre, che parlava di HUMINFO e TECHINFO. Gli Stati Uniti, negli anni precedenti, avevano tagliato progressivamente gli investimenti in HUMINFO, l’informazione umana, quella raccolta sul campo da persone reali. In cambio, avevano puntato tutto su TECHINFO: intercettazioni, satellite, software.
Il risultato? Alcuni segnali c’erano, ma nessuna macchina li aveva considerati affidabili. Erano stati archiviati come rumore di fondo. Solo che quel rumore, l’11 settembre, è diventato esplosione.
Quella lezione dovrebbe farci riflettere. Periodicamente ci illudiamo che una tecnologia ci libererà da tutto. Dal pensare, dal lavorare, dal fare fatica. Ma il progresso è utile solo quando non dimentica l’uomo.
Nessun algoritmo vale quanto una persona
Oggi sento dire che non serviranno più copywriter, venditori, marketer, amministratori, analisti. Che tutto lo farà l’AI. E poi, alla fine, nemmeno gli psicologi, perché ci penserà un prompt ben scritto.
Io non ci credo. Perché ogni macchina, ogni modello, ogni output, ha bisogno di essere letto, interpretato, contestualizzato. Ha bisogno dell’uomo. Per questo c’è chi, come Chiara, diventa coach per abbracciare l’umanità del suo lavoro e chi, come noi, crede ancora che dietro ogni vendita, ogni campagna, ogni analisi, ci siano emozioni, empatia, relazioni.




Conclusioni: torniamo umani, prima di tutto
L’AI è uno strumento straordinario. Ma l’uomo è molto di più. Non dimentichiamolo. Il marketing non è una scienza esatta. La vendita non lo è. La psicologia non lo è. Tutto questo è fatto da persone, con tutte le loro sfumature. E se vogliamo davvero usare bene l’AI, dobbiamo prima riconnetterci con la nostra umanità.
Non sono mica una macchina (cit. Chiara Argento Zorat).
Articolo di Alessandro Chiavacci