Sabato scorso ero al mare.
Ultimi raggi di sole di questa strana estate di San Martino, quando mi arriva un messaggio.
Un potenziale cliente – con cui avevo scambiato una bella chiacchierata pochi giorni prima – mi manda un link YouTube. Questo: https://www.youtube.com/watch?v=2Q0kOox1abg
Una mia vecchia intervista di tre anni fa.
“Ti ho ascoltato attentamente. È stato un piacere e spero potremo presto approfondire.”
L’intervista l’avevamo fatta grazie a InLIRE, in collaborazione con Piero Muscari.
Quarantuno minuti in cui raccontavo il nostro modo di vedere il marketing.
Il passaggio dal marketing al BAU (di cui vi parleremo presto), il valore della fiducia, il senso del beneficio. La fame di raccontare.
Sono passati tre anni. Due aziende. Un sacco di esperienze, belle e meno belle. Traslochi aziendali, personali, progetti che sono nati e altri che abbiamo lasciato andare.
Eppure, quel video era lì. A portata di click. Una traccia – minuscola ma presente – del nostro modo di lavorare, pensare, comunicare. Una digital footprint, insomma.
L’impronta che resta
Non mi interessa dirvi cosa dicevo tre anni fa. Mi interessa farvi notare che è ancora lì.
E che qualcuno l’ha trovata, ascoltata, analizzata e ha preso una decisione – magari anche piccola – partendo da lì.
È questo il punto.
Tutto ciò che facciamo online lascia una traccia.
Un contenuto, un’intervista, un post, un commento.
Tutto contribuisce a costruire la nostra impronta digitale, quella che noi chiamiamo reputazione.
E quella roba lì – bella o brutta che sia – rimane.
Quando iniziamo a lavorare a un progetto con l’Editorial Hub, la prima cosa che facciamo è andare a scavare:
Cosa ha detto quell’azienda, quel manager, quel fornitore negli anni?
Come comunica? Come si racconta?
Cosa rimane di lui nell’arena digitale?
Perché tutto è lì.
E niente sparisce davvero.
La reputazione non si resetta
È questa la forza – e il pericolo – della reputazione digitale.
Ogni post, ogni commento, ogni partecipazione a una discussione contribuisce a comporre il quadro.
Una tessera dopo l’altra.
E magari, tre anni dopo, qualcuno ti scrive.
O magari… non ti scrive.
Perché ha trovato qualcosa che non gli è piaciuto.
Un commento di troppo, una frase fuori posto, un tono sbagliato.
E tu non lo saprai mai.




La dimenticanza digitale (digital oblivion) non esiste
Viviamo in una cultura dell’istantaneità.
Dove dimentichiamo cosa abbiamo fatto ieri, ma pretendiamo che il web dimentichi quello che abbiamo detto dieci anni fa.
E invece no.
Quella roba resta lì.
E non c’è “oblio digitale” che tenga.
Per questo è importante essere consapevoli.
Saper scegliere.
Non censurarsi, certo. Ma almeno non agire per riflesso.
Perché il web non dimentica.
E le persone che ci leggono, ascoltano, incrociano… sono sempre di più.
E la nostra voce online, che ci piaccia o meno, diventa parte del processo decisionale.
Un like, un commento, una battuta fuori luogo possono fare la differenza tra una stretta di mano e un’occasione mancata.
E quindi?
Il punto non è avere paura.
Il punto è sapere che ogni cosa che diciamo è una traccia.
Che la nostra digital footprint è la somma di tutto quello che abbiamo lasciato.
E che costruire una reputazione digitale non significa essere perfetti.
Ma essere coerenti, consapevoli e riconoscibili.
È bellissimo sapere che qualcuno ti ha trovato interessante.
Ma attenzione: è altrettanto possibile che qualcuno abbia scelto di non sceglierti, per qualcosa che non ricordi nemmeno di aver scritto.
E non lo saprai mai.
Articolo di Alessandro Chiavacci