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Own Selling Proposition: cosa vendi davvero?

Negli ultimi anni ho sentito dire tantissime volte che la comunicazione si è trasformata. Che oggi tutto passa dai social, che bisogna stare nei flussi, che conta l’engagement. Ma ogni volta che torno a ragionare sul marketing – e in particolare sul perché un’azienda dovrebbe essere scelta – mi rendo conto che, a forza di rincorrere strumenti e canali, ci siamo dimenticati del contenuto. Di cosa diciamo, prima ancora di dove lo diciamo. Questo articolo è un tentativo di rimettere a fuoco quel contenuto, partendo da un concetto che ha accompagnato la storia del marketing: le Unique Selling Proposition. E da come, oggi, possiamo trasformarle in qualcosa di nuovo. O meglio: di nostro.

Dalle Unique alle Own: cosa è successo al contenuto

Quando ero all’università e studiavo marketing sui testi di Kotler, uno dei concetti che mi era rimasto più impresso era proprio quello delle Unique Selling Proposition. Le aziende potevano vendere ai propri clienti se erano capaci di raccontare qualcosa di unico, una proposta chiara, differenziante, che offrisse una motivazione concreta all’acquisto. Per anni ho pensato che fosse la base di ogni strategia. Poi sono arrivati i primi anni duemila e, con loro, internet, la globalizzazione, l’iper-concorrenza. Il concetto di unico ha cominciato a sgretolarsi. Tutto diventava copiabile, migliorabile, automatizzabile. E così le USP sono state progressivamente accantonate.

A quel punto il marketing si è concentrato su funnel, journey, touch point, storytelling, canali, KPI. Tutto giustissimo, per carità. Ma ci siamo convinti che il contenuto fosse quasi irrilevante. Che bastasse avere la forma giusta, nel luogo giusto, al momento giusto. Il messaggio? Secondario. Per anni abbiamo lavorato mettendo il cliente al centro – cosa sacrosanta – dimenticandoci però che l’azienda qualcosa doveva pur dirlo. Doveva prendere parola. Doveva raccontare perché il suo prodotto esiste, e a cosa serve davvero.

Il ritorno della proposizione (ma con un’altra forma)

Poi è arrivato il messy middle, il caos del comportamento d’acquisto moderno, e all’improvviso ci siamo accorti che i clienti sono tornati a farsi domande più profonde. E che, per emergere nel rumore di fondo, non basta esserci. Serve dire qualcosa di specifico, anche se non perfettamente unico. Le Unique Selling Proposition non sono più sufficienti. Perché “unico”, oggi, è quasi impossibile. Ma “proprio tuo”? Quello sì. È da lì che nasce il concetto che abbiamo iniziato a usare sempre di più in Dreamers Agency: le Own Selling Proposition.

Non è un semplice cambio di nome. È un cambio di logica. Non cerchiamo più un elemento di unicità oggettiva, ma qualcosa che appartenga davvero all’azienda, una caratteristica distintiva che possa essere rivendicata e raccontata con coerenza. Non basta dire “siamo i primi”, “siamo i migliori”. Bisogna dire “siamo fatti così”. Perché l’identità, oggi, è più potente dell’originalità.

Le OSP si scoprono, non si inventano

Proprio su questo tema, mercoledì scorso durante un evento del circuito Linx, un imprenditore mi ha chiesto: “Ma voi come fate a definire le mie proposizioni di vendita?” La risposta è stata quasi banale: facendo le domande giuste.

Dopo anni passati a lavorare con clienti come MediaSecure, Longino, IlContadinoOnline, Kooness, abbiamo imparato che ogni azienda ha un nucleo identitario da cui partire. Basta saperlo tirare fuori. C’è un metodo, una lista di domande, un esercizio di ascolto e di confronto. E da lì vengono fuori le proprie selling proposition, le OSP. Sono tue. Non perché siano impossibili da replicare, ma perché nessuno le può dire come le dici tu, se sono davvero tue.

Articolo di Alessandro Chiavacci

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